Tour dei parchi USA on the road, itinerario di viaggio
Per le persone che amano viaggiare il tour on the road dei grandi parchi del sud ovest degli Stati Uniti rappresenta uno dei grandi classici, uno di quei viaggi che si devono fare almeno una volta nella vita.
Il viaggio si presta a chi ama i viaggi itineranti ed è alla ricerca di paesaggi mozzafiato e attività outdoor, oppure a chi come noi subisce ancora il fascino del mitico West.
Il nostro viaggio si è svolto nel mese di giugno del 2010 e di seguito vi proponiamo un itinerario di undici giorni, riportando le impressioni live così come le avevamo raccolte nel nostro quaderno degli appunti.
Tour dei parchi USA, itinerario di viaggio
GIORNO 1
San Francisco – Mariposa Grove (Yosemite NP) – Merced
Dopo aver dedicato due giorni alla scoperta dei luoghi più famosi di San Francisco, dobbiamo lasciare la città direzione Yosemite National Park. La giornata sarà lunga ed impegnativa, alle ore 7.30 sono già negli uffici della compagnia rent a car in O’Farrell Street a ritirare la macchina, una KIA Optima.
Una volta caricati i bagagli in hotel, ci dirigiamo verso est e durante l’attraversamento del maestoso e trafficato Bay Bridge, buttiamo un ultimo e malinconico sguardo sulle costruzioni bianche con il tetto a terrazza di Frisco (qui trovate la nostra guida sulla Bay City).
La prima parte della giornata di oggi la possiamo definire come la mattina dei paesaggi. Dalla foschia argentea della baia di San Francisco, alle colline gialle con l’erba bruciata dal sole tra Oakland ed Hayward, dai grandi allevamenti di bovini di razza frisona (pezzata nera) tra Manteca e Merced, alle piantagioni di alberi da frutta nelle bellissime aziende agricole tra Madera ed Oakhurst.
Sulla CA-99 sia ai bordi della strada che nello spazio divisorio tra le due carreggiate, crescono delle piante con fiori bianchi e rossi che a prima vista sembrano oleandri. Man mano che ci avviciniamo alla Sierra National Forest, i boschi di pini di alto fusto prendono velocemente il posto della vegetazione verde e bassa incontrata sulle colline che la precedono.
Arriviamo all’ingresso sud del Yosemite NP, alla stazione dei ranger acquistiamo per 80$ il pass di ingresso annuale ai parchi nazionali. Lasciata la macchina nel parcheggio e consumato lo spuntino di metà giornata, iniziamo la visita a piedi del bosco di sequoie di Mariposa Grove.
Le Sequoiadendron giganteum, sono tra gli esseri viventi più antichi al mondo e quando ci troviamo di fronte ai primi esemplari segnalati dai cartelli, il Fallen Monarch, il Bachelor & Three Graces ed il Grizzly Giant, pensiamo a quanto scriveva John Steinbeck nel suo Viaggio con Charley:
” Le sequoie, una volta viste, lasciano un segno, ossia creano una visione che ti porti sempre dietro. Nessuno è mai riuscito a dipingere o a fotografare una sequoia. Il sentimento che producono non è trasferibile. Emanano silenzio e stupore. ……Sono le ambasciatrici di un altro tempo. …Il più vano, il più trascurato, il più irriverente degli uomini, alla presenza di una sequoia subisce l’incantesimo della meraviglia e del rispetto”.
Tutto vero caro John!
Durante il trail per il sentiero, tra rami secchi di pino, pigne ed alcuni esemplari rossi di snow plant, incontriamo diversi scoiattoli di varie specie.
Pernottiamo a Merced. Qui la presenza dell’immigrazione messicana si nota facilmente, i canali della televisione sono suddivisi tra quelli in lingua inglese e quelli in lingua spagnola, le targhe delle macchine oltre alla scritta California portano anche la scritta Mexico, i fast food offrono tacos, tortillas, empanadas e pescado, i cartelloni che si trovano ai lati delle strade pubblicizzano la partnership tra le aziende multinazionali e la nazionale messicana di calcio alla Coppa del Mondo 2010.
In un supermercato facciamo quello che si rivelerà come l’acquisto più importante di tutto il viaggio, un frigorifero portatile in polistirolo preso alla modica cifra di 3,80$. Reperire il ghiaccio negli Stati Uniti è la cosa più facile di questo mondo, gli hotel sono provvisti di distributori gratuiti, nei supermercati si trova a prezzi irrisori.
Noi la mattina ne facevamo scorta, riempivamo dei sacchetti di nylon e lo mettevamo sul fondo del frigo. Questo ci permetteva di mantenere al fresco le bevande, la frutta e gli alimenti per tutto il giorno.
Prima di concludere la giornata, voglio raccontare un’altra stranezza degli americani. Nei bagni degli hotel, vicino al water, ho trovato perfino la presa di rete per connettere il pc ad internet, però fin qui non ho mai trovato il bidet. Mi chiedo: ma come faranno a …? A voi l’ardua sentenza, dopo aver naturalmente dato sfogo alla vostra fantasia.
GIORNO 2
Merced – Yosemite NP – Lee Vining
Apro la giornata con una bella realtà ormai consolidata in questi giorni. I dipendenti pubblici, gli impiegati, le commesse dei negozi, i passanti: sono tutti prodighi di consigli ed informazioni, elargiti sempre con grande gentilezza e con il sorriso sulle labbra.
Ripartiamo alla volta di Yosemite NP, nel quale accederemo questa volta da una delle entrate ovest: la Arch Rock Entrance. Tra Merced e Mariposa, sulla CA-140, continuiamo a vedere coltivazioni di alberi da frutta (mandorle, susine, pesche e pistacchi). Man mano che ci avviciniamo a Mariposa, il terreno diventa vallonato e ricoperto di erba secca gialla, si intravedono qua e là dei bovini neri al pascolo e qualche pozzo d’acqua alimentato a vento.
Dalla strada principale si diramano di tanto in tanto delle stradine secondarie, sul cui ciglio giacciono le cassette della posta. Facciamo rientro nella Sierra National Forest, percorriamo una lunga vallata a V solcata dal Merced River finché una sbarra e la stazione dei ranger ci fanno capire che ci troviamo nuovamente nel parco. Dopo poche miglia di strada al suo interno, Yosemite ci sbatte in faccia senza preavviso le sue bellezze: acqua, pareti di granito e vegetazione lussureggiante, in pratica tutta l’essenza del suo essere.
Ci fermiamo ad un primo belvedere ad ammirare la parete liscia di El Capitan (7569 piedi, 2307 metri) e le cascate Bridalveil dall’altra parte della strada. Proseguiamo fino al villaggio e dopo aver lasciato la macchina in uno dei grandi parcheggi, ci incamminiamo per i due percorsi che abbiamo in programma di fare: il Cook’s Meadow Loop ed il Lower Yosemite Fall.
Entrambi sono classificati come facili e si possono fare anche in combinata, dato che hanno un punto in comune nella fermata n° 6 dello shuttle. Il primo trail si snoda tra una pista ciclabile e dei bellissimi prati verdi regno incontrastato di scoiattoli e cerbiatti. Una volta arrivati sul Sentinel Bridge, possiamo ammirare la mezza cupola dell’Half Dome (8836 piedi, 2693 metri).
Il secondo invece è un loop che porta proprio alla base delle cascate Lower Yosemite, anche se dal percorso si possono intravedere anche le Upper Falls. Questo dovrebbe essere uno dei momenti migliori dell’anno per vedere le cascate, la neve infatti si sta ancora sciogliendo e quindi la portata d’acqua sta toccando i suoi massimi valori.
Verso le ore 14.30 usciamo dalla valle, svoltiamo a destra e prendiamo la CA-120, comunemente conosciuta come Tioga Road, la quale in un’ottantina di miglia ci porterà all’uscita est del parco.
L’itinerario di questo pomeriggio e dell’intera giornata di domani è stato in sospeso fino a pochi giorni fa. Infatti il Tioga Pass è stato aperto solo domenica 6 giugno. Ovviamente avevamo in mano un itinerario alternativo, ma per motivi scaramantici non avevamo mai voluto prenderlo in seria considerazione, fiduciosi che il destino avrebbe fatto la sua parte.
La strada, bagnata da rivoli d’acqua creati dallo sciogliersi della neve ai suoi lati, si snoda tra boschi di pini, laghetti, stagni e vedute mozzafiato sulla valle. Il tragitto va fatto con calma e gustato metro dopo metro, consigliamo di fermarsi a più look out possibili, anche a quelli non segnalati sulle mappe.
In un belvedere abbiamo incontrato una colonia di marmotte che si mettevano in posa per farsi fotografare, in un altro abbiamo visto topi e scoiattoli. Siesta Lake, Olmsted Point, Tenaya Lake e Tuolumne Meadows, tutti offrono delle viste bellissime. Peccato che il visitor center ed i servizi di Tuolumne Meadows fossero ancora chiusi.
Dopo aver percorso una strada in discesa sprovvista di parapetto, che per lunghi tratti ha avuto una pendenza del 8%, arriviamo nella piccola Lee Vining per il tramonto sul Mono Lake.
A Yosemite è forse legato l’unico e vero grande rimpianto del nostro viaggio: non aver trovato mezz’oretta di tempo per visitare la galleria di fotografie di Ansel Adams.
Due parole sui rifornimenti di benzina, che qui viene chiamata unleaded. A differenza dell’Italia, le pompe di benzina sono di colore nero, mentre le poche di gasolio sono di colore verde. La unleaded è divisa in tre tipi, in base al numero di ottani che contiene: 87 la Regular, 91 la Plus, 95 la Premium. Il rifornimento funziona con il prepagato: si va alla cassa, si dichiara una cifra ipotetica di spesa, si eroga il carburante e poi si ritorna alla cassa per il conguaglio.
GIORNO 3
Lee Vining – Bodie SP – South Tufa NR – Death Valley NP
Quella che affrontiamo oggi è una delle giornate più lunghe ed impegnative, però al termine del viaggio risulterà una delle più belle ed emozionanti. Ci accompagna il solito cielo azzurro e una brezza fresca consueta a queste altitudini.
Quindici minuti prima delle nove (orario d’apertura) siamo già fermi davanti alla stazione dei ranger del Bodie State Park. Con precisione svizzera aprono la biglietteria ed alzano la sbarra in perfetto orario. La ghost town si raggiunge con un viaggio di circa 50 minuti da Lee Vining e le ultime tre miglia del percorso sono su una strada sterrata abbastanza accidentata.
La cittadina ebbe il suo massimo splendore nella seconda metà del 1800, durante il periodo della corsa all’oro. La visita si sviluppa per le vie polverose e gli edifici in legno scampati all’incendio del 1932. Ci affacciamo alla chiesa, alla scuola, ad una drogheria, alla stazione dei carburanti; come tutti gli altri edifici sono quasi completamente chiusi.
Ci muoviamo in un ambiente spettrale, avvolti nel silenzio che regna in queste valli remote. Lassù su una collina intravediamo le lapidi dei defunti. Pochi anni dopo l’ultimo incendio, negli anni quaranta del 1900, gli ultimi residenti lasciarono la città, che da quella volta è disabitata. Anche qui incrociamo numerosi scoiattoli e topi di campagna. Sotto le tettoie delle case invece gli uccelli hanno costruito numerosi nidi di terra e paglia, ed è un continuo via vai di adulti che portano il cibo ai piccini.
Lasciata Bodie ci rimettiamo sulla US-395 e dopo esserci fermati ad ammirare un bellissimo panorama del Mono Lake da Conway Summit, passiamo l’abitato di Lee Vining e dopo circa 5 miglia giriamo a sinistra imboccando la stradina che ci porta alla South Tufa State Natural Reserve.
Entriamo così all’improvviso in un mondo fantastico, formato dalle acque calme ed azzurre del Mono Lake e dalle formazioni di tufo che escono dalla sua superficie. Sono delle vere e proprie torri piene di guglie, sopra le quali svolazzano i gabbiani (california gull). Il fenomeno è dovuto alla combinazione delle acque salate ed alcaline del lago, ricche di carbonato, con le acque delle sorgenti sotterranee ricche di calcio, che creano i pinnacoli di tufo.
La zona orientale della Sierra Nevada, dove adesso si trova la contea di Mono, è stata a lungo la terra delle tribù indiane dei Northern Paiute e dei Mono Lake Paiute. Le acque del lago erano e sono ancora oggi ricche di mosche nere (alkali fly), che in lingua indiana si chiamano mono. Da qui il nome del lago.
Usciti dalla riserva, riprendiamo la US-395 che ci porterà giù fino a Lone Pine. Il panorama ai nostri lati è molto bello, formato da una tavolozza di colori in un continuo susseguirsi di salite e discese, che ci consentono di viaggiare costantemente ad una altitudine fra i 1300 ed i 2000 metri.
Nella zona di Mammoth Lake il paesaggio è tipicamente alpino con alberi di alto fusto, poi man mano che si scende verso sud gli arbusti prendono il posto dei pini ed i monti hanno le cime spoglie. I colori che ci circondano variano dal verde scuro al marrone, dall’ocra al verde pastello.
È ormai consuetudine incrociare sul ciglio della strada dei cartelli con la scritta “Adopt a HWY” e subito sotto il nome di chi ha versato i fondi per adottarla (ditte private, associazioni, semplici cittadini, famiglie, ecc.). Se il cartello non è stato ancora venduto c’è la scritta “Available”, cioè disponibile.
Nel tardo pomeriggio arriviamo nella Death Valley. Dapprima percorriamo una strada in piano, poi una lunga e tortuosa discesa che ci porta poco prima di Panamint Springs al Father Crowley Point, poi risaliamo fino al Towne Pass per poi ridiscendere velocemente a Stovepipe Wells, dove appena fuori il villaggio visitiamo le Mesquite Flat Sand Dunes.
Dopo un lungo e confortevole viaggio in macchina, l’impatto con la calura della valle della morte è a dir poco disagevole. Riempito lo zainetto di bottiglie di acqua fresca, spalmate le labbra con il burro cacao, io e Riccardo partiamo alla scoperta di questo lembo di terra ricoperto da dune di sabbia.
Elisabetta invece getta la spugna quando ci troviamo ancora nel parcheggio causa la forte calura. Ci addentriamo fino alle dune più alte, sulla sabbia vediamo le impronte di chi ci ha preceduti. Non tanti si direbbe, vista la quantità. Probabilmente la maggior parte dei visitatori si ferma nella piazzola antistante il parcheggio, oppure si avventura solo nella prima parte del trail.
Rientriamo alla base dopo circa un’ora, grazie al sole calante sulla superficie sabbiosa si alternano degli spettacolari giochi di luci ed ombre.
Arriviamo al Furnace Creek Ranch poco prima del tramonto, il termometro della lobby segna 104,40 °F che equivalgono a 40,22 °C. Preso posto nella nostra fresca cabina, ci dirigiamo al ristorante per gustare una tenera New York steak. Gli americani, con la pinta di birra in mano, sono ammassati davanti alle televisioni ad assistere alla decisiva gara 7 della finale del campionato NBA di basket tra i Los Angeles Lakers ed i Boston Celtics, gara vinta dai californiani per 83 a 79.
GIORNO 4
Death Valley NP – Las Vegas
Dentro il Ranch ci sono tutti i servizi essenziali, oltre ad un campo di golf ed il Borax museum. Nella Death Valley c’erano diverse cave di questo cristallo bianco, noto anche come sodio borato. Veniva usato nella lavorazione del vetro, dello smalto, dei vasi in ceramica, dei detergenti e dei saponi.
Nel museo sono esposte le attrezzature che venivano usate per l’estrazione del minerale verso la fine del 1800, mentre all’esterno ci sono alcuni esemplari di carri in legno. Venivano usati per trasportare la polvere estratta, erano trainati da una pariglia di venti muli e con un viaggio di dieci giorni raggiungevano Mojave, 165 miglia da qui. Con il caldo che fa in queste lande desolate della California, non è difficile credere che la traversata somigliasse ad un vero e proprio girone infernale, di dantesca memoria.
Per completare il nostro giro all’interno della valle della morte, stamattina abbiamo in programma il “tour” classico che si snoda a sud–est di Furnace Creek. Partiamo alle ore 8.00 dal Ranch e dopo circa 17 miglia ci troviamo a Badwater Basin, una distesa di sale situata 282 piedi sotto il livello del mare. Il sole sta pian piano facendo capolino da dietro le cime dell’Amargosa Range, il caldo è già soffocante, i raggi del sole vengono riflessi sulla spianata bianca di sale.
Man mano che avanziamo nel bacino salato, la passeggiata di circa un chilometro e mezzo si fa sempre più difficile, a causa del caldo umido e di fastidiose mosche che ci ronzano sul viso, simili a quelle incontrate due anni fa ad Uluru in Australia. La fatica viene comunque ripagata da scorci bellissimi grazie al contrasto tra il bianco del sale, il nero delle montagne in controluce e l’azzurro del cielo.
Sulla via del ritorno ci intrufoliamo nella stretta e tortuosa Artist’s Drive, che viene presentata sulle guide come scenic loop. La strada è ad una sola corsia di marcia e si incunea tra pareti di roccia in un continuo su è giù, immersa in un contesto di colori svariati, tanto da essere definita Artist’s Palette (la tavolozza degli artisti).
Al belvedere riceviamo un refolo di aria fresca, che per noi rappresenta manna dal cielo. Rientrati sulla CA-190, svoltiamo a destra e dopo poche miglia arriviamo a Zabriskie Point.
È un posto magico, composto dai sedimenti di un antico lago prosciugatosi 5 milioni di anni fa. L’ideale sarebbe sedersi su una panchina ed ammirare quella che sembra una vaschetta di gelato variegato alla vaniglia e cioccolato. È un paesaggio ipnotico che rapisce per la sua spigolosità ed i suoi colori.
Terminiamo il tour ai 5475 piedi (1669 metri) di Dante’s View, proprio sopra Badwater Basin e di fronte a Telescope Peak (3368 metri), da dove si ha un ampio panorama dell’intera valle. Per fare l’intero giro ci abbiamo impiegato circa quattro ore.
Consumiamo lo spuntino di metà giornata sotto il fogliame di un albero della stazione di servizio di Amargosa Valley, poche miglia dopo aver fatto ingresso in Nevada, il Silver State. Il caldo continua la sua opera di disidratazione, tanto da riuscire a sciogliere le sottilette di formaggio dei sandwich e rendere le fette di pane bauletto secche come se le avessimo tostate.
A metà pomeriggio arriviamo a Las Vegas, dopo aver percorso 1000 miglia da quando abbiamo lasciato San Francisco. Il tutto senza aver mai sbagliato strada, grazie alla precisione di Google Maps ed al mio fidato navigatore Riccardo. Capiamo subito che Las Vegas è la città dell’eccesso allo stato puro: lo sfarzo, lo spreco, il paradosso ed il lusso ostentato. È paragonabile ad un grande salvadanaio e tutti i suoi visitatori, chi più chi meno, contribuiscono al suo riempimento.
Sui canali televisivi di news intanto, continuano a proporre informazioni, interviste e dibattiti sulla marea nera causata dalla fuoriuscita di greggio proprio davanti alle coste della Louisiana, nel golfo del Messico.
GIORNO 5
Las Vegas
Scrivo i primi appunti della giornata sdraiato ai bordi della piscina del Circus Circus, mentre l’altoparlante diffonde ad alto volume le note di Bad Romance di Lady Gaga. In fase di progettazione del viaggio, avevamo inserito un giorno di “riposo” proprio a metà del nostro on the road, e quindi quale posto migliore di Las Vegas per concederci un giorno di svago. Abbiamo deciso inoltre di pernottare al Circus perché è uno dei pochi hotel casinò che accetta anche i bambini.
Las Vegas appunto, chiedi quello che vuoi e ti sarà dato. Penso non ci sia posto migliore al mondo per soddisfare con tale efficienza anche le richieste più fantasiose. Pensiamo per esempio ai matrimoni. Abbiamo visitato una cappella dove offrono veri e propri pacchetti tutto compreso per gli sposi (volo, hotel, documentazione, ricevimento, vestito, etc.).
Appena usciti dalla visita, butto l’occhio su un grande cartellone che campeggia sopra i palazzi. A caratteri cubitali viene pubblicizzato uno studio di avvocati divorzisti che, a prezzi modici, offre la propria professionalità ed assicura di sbrogliare la matassa anche delle situazioni più complicate.
La città comunque mi da la sensazione di essere un posto di redenzione per molti visitatori: qui non esistono classi sociali e titoli che tengano, puoi essere magro od obeso, bello o brutto, giovane o vecchio, l’importante è che tu abbia dei dollari in tasca da spendere o una carta di credito. Questo ti da diritto di accedere facilmente a tutte le attrazioni.
Anche qui fa caldo, la temperatura oscilla sui 35 °C e spira sempre un forte vento secco che prosciuga la gola. In macchina percorriamo più volte il Las Vegas Boulevard, conosciuto anche come The Strip. Una persona ridendo e scherzando mi ha detto che si chiama così non a caso: ci entri con il portafoglio pieno di bigliettoni verdi e quando arrivi in fondo ti ritrovi senza un Cent. Spogliato! Sul viale è un continuo brulicare di gente, anche nelle ore più calde della giornata. Sicuramente qui stiamo vivendo un’altra America rispetto a quella che abbiamo vissuto fino a ieri, e che rivivremo da domani.
Prima di coricarci, dalla finestra della nostra camera posta al 29° piano della Skyrise Tower, diamo un ultimo sguardo alla Las Vegas sfavillante e piena di luci by night, mentre gli inservienti continuano a farci pervenire in camera tramite la fessura sotto la porta, volantini che pubblicizzano ristoranti, discoteche e massaggiatrici per tutti i gusti.
GIORNO 6
Las Vegas – Bryce Canyon NP – Tropic
Come da giorni viene pubblicizzata in televisione, oggi negli Stati Uniti si festeggia la Festa del Papà. Noi invece dobbiamo affrontare un lungo trasferimento di circa 5 ore per le strade del Nevada, dell’Arizona e dello Utah, per arrivare al Bryce Canyon.
Quella che ci scorre davanti è una pellicola di paesaggi meravigliosi. Dapprima il deserto del Nevada, circondato da catene montuose senza vegetazione color caffellatte, nel quale intravediamo qualche albero di yucca e dei lunghissimi treni merce, formati da più di cento vagoni. Lasciamo il Nevada ed attraversiamo brevemente le gole rocciose dell’Arizona, solcate dal Virgin River.
Lasciato sulla nostra destra lo Zion NP, arriviamo a Cedar City nello Utah, prendiamo la UT-14 ed entriamo nel paesaggio montano della Dixie National Forest. Si sale, si sale fino all’incrocio con la UT-12 classificata come scenic byway. Ci fermiamo ad ammirare le pareti e le guglie rosse del Red Canyon, addentrandoci nel Mossy Cave Trail in un contesto di terra molto friabile e fiori gialli chiamati arrowleaf balsamroot.
Il caldo di Las Vegas è ormai solo un ricordo, quassù sugli altipiani l’aria è rarefatta e fresca, anche se sopra di noi abbiamo costantemente il sole che splende. I cartelli luminosi sul lato della strada mettono in guardia i visitatori sull’elevato rischio di incendi per la giornata di oggi.
Prendiamo posto nel bed & breakfast che abbiamo prenotato a Tropic, consumiamo velocemente un sandwich mentre rileggiamo le informazioni sul parco. Mettiamo in moto la KIA, ritorniamo indietro di alcune miglia sulla UT-12, svoltiamo a sinistra sulla UT-63 e dopo 4 miglia entriamo nel Bryce Canyon NP.
Il parco, immerso nella Dixie Forest, si sviluppa su una strada chiusa di 18 miglia, sulla quale si affacciano i vari look out. La nostra visita ha inizio da quello più lontano, il Rainbow Point. Da lì, percorrendo a ritroso la strada, ci fermiamo a Yovimpa Point, a Black Birch Canyon, a Ponderosa Canyon, ad Agua Canyon ed a Natural Bridge Point. S
iccome sta velocemente arrivando il momento del tramonto, da Natural Bridge ci trasferiamo direttamente ad Inspiration Point e Sunset Point. Chi non ha mai visto immagini di Bryce Canyon prima di visitarlo, non immagina nemmeno quello che può trovare qui. Una distesa di pinnacoli di roccia rossa, chiamati hoodoo, formatisi per l’erosione della roccia causata dagli agenti atmosferici. Sullo sfondo gli altipiani (chiamati plateau) e le catene montuose create dalla compressione della crosta terrestre, che formò le Montagne Rocciose.
La storia geologica di queste zone è ricca e complessa. Molti processi ed eventi hanno interagito tra di loro per creare e continuare tuttora a modificare questo paesaggio. Prima che si creassero gli hoodoo, era necessario che si creasse un terreno di sedimenti calcarei, per intrappolare i sedimenti calcarei era necessario un bacino, e per creare un bacino erano necessarie le montagne.
Nel raggio di poche decine di miglia si possono visitare oltre al Red Canyon ed al Bryce Canyon, anche il Capital Reef NP ed il Grand Staircase Escalante National Monument. A Sunset Point riviviamo l’esperienza di due anni fa ad Uluru in Australia, con la roccia che cambia colore man mano che la luce del sole scompare all’orizzonte.
Rientriamo verso Tropic, però prima di lasciare il parco ci fermiamo ad osservare un branco di cerbiatti al pascolo (mule deer), per nulla disturbati dai curiosi che come noi si fermano lungo il ciglio della strada a fotografarli.
In onore del paesaggio del parco, Elisabetta e Riccardo decidono di mangiare per cena un bisteccone alla Fairyland, ricoperto da uno strato di formaggio fuso e da una fetta di prosciutto. I due alimenti creano sulla carne la texture del classico paesaggio che si può ammirare nel parco sia da Fairyland Point che da Sunrise Point, da cui prende il nome anche un loop.
GIORNO 7
Tropic – Bryce Canyon NP – Horseshoebend – Page
Tonici e riposati, fatto il pieno di energie grazie all’abbondante colazione a base di uova strapazzate, bacon, patate in padella, pane tostato, succo di frutta e caffè, amorevolmente preparata dalla signora Nettie, ci trasferiamo nuovamente nel parco e questa volta ci fermiamo al Sunrise Point.
Qui ha inizio il Queen’s Garden Trail, lungo circa tre chilometri e con un dislivello di 100 metri. In realtà avevamo in programma di fare il loop combinato Queen’s Garden Trail – Navajo Loop, però sapevamo già dalla sera precedente che il Navajo era impraticabile causa caduta massi.
Dal Sunrise Point partono anche le escursioni nel canyon a dorso di mulo. Scendiamo attraverso lo stretto e spoglio sentiero tra rari pini douglas, qualche ciuffo giallo di arrowleafs balsamroot e piccoli scoiattoli che fanno capolino da dietro le rocce. Dietro ogni curva si nasconde una vista più bella dell’altra, sempre con un paesaggio diverso. Il canyon con la luce del sole a tre quarti offre il meglio di sé. Anche durante questo hiking la scorta d’acqua è importante, consiglio di prendere la camminata con calma, sedendosi di tanto in tanto su qualche masso per ammirare il paesaggio circostante.
Prima di lasciare definitivamente il parco, ci fermiamo al Visitor Center a vedere il filmato orientativo della durata di venti minuti circa, che viene riproposto ogni mezz’ora.
Riprendiamo la macchina parcheggiata nello spazio adiacente il centro visitatori e ci incamminiamo per le 150 miglia che ci separano da Page in Arizona, il Grand Canyon State. Ripercorsa all’incontrario la UT-12, svoltiamo a sinistra sulla US-89 e scendiamo pian piano verso la nostra meta, in un paesaggio di montagna color ocra con bassa vegetazione.
A Kanab, famosa per essere stata il set di famosi film western, la terra diventa di colore rosso essendo ricca di minerali ferrosi. Proseguiamo costeggiando da un lato un altipiano ricoperto da bassi arbusti e dall’altro il Paria Plateau e le Vermillon Cliffs. Durante il tragitto incrociamo un paio di riserve indiane, quella dei Paiute e quella dei Paria.
Arrivati a circa 20 miglia da Page, dall’alto della US-89 si presenta davanti a noi un’immagine bellissima: le acque azzurre – verde smeraldo del Lake Powell formano delle anse tra le rocce rosse e color panna che le circondano.
Arrivati a Page, invece di entrare nella cittadina e prendere posto nel nostro alloggio, tiriamo diritti fino all’Antelope Canyon e prenotiamo l’escursione di domani mattina con i Navajo. Dato che siamo nella loro terra, ci è sembrato giusto scegliere il tour organizzato da loro piuttosto che quelli offerti dalle numerose agenzie presenti in città.
Prima del calar del sole andiamo a visitare l’Horseshoebend (letteralmente ansa a forma di scarpa di cavallo). Qui infatti il fiume Colorado forma un’ansa dalla caratteristica forma a ferro di cavallo. Si parcheggia la macchina in uno spiazzo sterrato, si fa una camminata di ¾ di miglia per scavalcare una collinetta ed arrivare al view point.
Purtroppo non ci sono parapetti e protezioni, e per uno come me che ha paura del vuoto non è proprio l’ideale. Per scattare qualche fotografia mi “lego” fisicamente a Riccardo con una mano, mentre con l’altra cerco di azionare il pulsante di scatto della mia Canon. Il tutto ovviamente senza buttare l’occhio nello strapiombo che c’è sotto di noi. Il Colorado, a seconda dei fasci di luce che riceve dal sole, cambia tonalità di colori: dall’azzurro al blu, dal blu al verde scuro.
Girando per le strade di Page, visitando i supermercati ed entrando nei ristoranti si nota chiaramente che la maggioranza della gente è di etnia indiana.
La connessione ad internet gratuita tramite la rete wireless è disponibile dappertutto anche se ci troviamo in una zona desertica, ma purtroppo per chi come noi non è dotato di un pc portatile ci sono difficoltà a reperire una postazione fissa per scaricare la posta elettronica. Mancano quasi completamente gli internet caffè ed anche gli hotel prediligono la rete senza fili.
GIORNO 8
Page – Antelope Canyon – Monument Valley – Kayenta
L’Arizona è terra di indiani, basta leggere il nome di alcune contee sulla mappa per intuirlo: Coconimo, Yavapai, Navajo, Apache, Cochise.
Puntuali alle ore 10.30 ci troviamo sullo spiazzo da cui partono le escursioni per l’Antelope Canyon, andiamo al chiosco in legno che funge da biglietteria e paghiamo il “tour” prenotato ieri pomeriggio. Ci sediamo sulle panchine in legno all’ombra del fabbricato, mentre i Navajo giocano a carte e scherzano tra di loro.
Alle ore 11.00 in punto una guida fa l’appello ad alta voce ed indica su quale camioncino dobbiamo salire. Dopo alcune conte infruttuose, partiamo a tutta velocità su un terreno di sabbia sconnesso che ci porta all’ingresso dello slot canyon. Entriamo e camminiamo quasi al buio in una stretta fessura tra due alte pareti di roccia.
L’Antelope è diventato famoso perché è il regno degli appassionati di fotografia, ma scattare fotografie lì dentro non è per niente facile. La mancanza di luce, l’affollamento di gente, la sabbia che si alza dal terreno e crea una patina di foschia: sono tutti fattori che rendono complicati gli scatti, anche se si lavora in manuale o in priorità di diaframma.
Terminata l’escursione, consumiamo velocemente un sandwich sotto il sole e poi, trovandoci già sulla AZ-98, ci dirigiamo verso Kaibito fiancheggiando la catena montuosa delle White Mesa ed il Rainbow Plateau. Il territorio, sul quale crescono solo pochi arbusti, è desertico e le montagne sembrano delle fette di torta servite su un piattino di ceramica. Sono rosse, bianche e gialle.
Arrivati sulla US-160 attraversiamo la Klethla Valley, scolliniamo la Black Mesa, prendiamo a sinistra la US-163, attraversiamo senza fermarci Kayenta e dopo un breve sconfinamento nello Utah arriviamo al famosissimo Monument Valley Tribal Park. Prendendo spunto dai racconti di altri viaggiatori, avevamo già deciso di affrontare il loop con la nostra macchina anziché con le escursioni organizzate dai Navajo.
Probabilmente con il senno di poi avremmo optato per questa soluzione, in quanto la pista è realmente accidentata e piena di insidie, tra buche, sobbalzi, pietre e sassi che spuntano dal terreno. Bisogna guidare con molta attenzione ed è superfluo dire che bisogna fare il giro a bassa velocità, in qualche tratto addirittura a passo d’uomo.
Vedo due esemplari di cavallo mustang al pascolo, accosto la macchina al lato della pista e mi avvicino lentamente per fotografarli. In un primo momento la mia presenza crea in loro un certo nervosismo, poi una volta capito che non ho propositi bellicosi, abbassano la testa e si rimettono a brucare i ciuffi d’erba che spuntano dalla terra rossa.
In prossimità di alcuni belvedere, i nativi hanno improvvisato dei mercatini di prodotti artigianali all’aperto. Solitamente sono gestiti da donne e bambini, gli uomini invece sono impegnati sui camioncini delle escursioni da loro organizzate. Fermatevi comunque ai vari view point e vi sembrerà di visitare un posto che vi è famigliare. Chi di voi non ha mai visto un film o un documentario ambientato qui alzi la mano. Allora? Non vedo nessuna mano alzata….
Avendola usata solo come base di appoggio logistico serale, non sono riuscito a farmi un’idea esaustiva su Kayenta. La cittadina si sviluppa lungo il percorso della US-163 e la maggior parte dei servizi sono concentrati all’incrocio di quest’ultima con la US-160. Ci sono delle stazioni di servizio, alcuni fast food ed un supermercato. A prima vista mi sembra un posto piuttosto anonimo, non si riesce a decifrare un “centro” per come lo intendiamo noi, le casette ad un piano sono tutte uguali e c’è poca gente che gira per le strade dopo il tramonto.
L’Arizona è situata nella fascia oraria Mountain Standard Time, ma è l’unico stato occidentale che non adotta l’ora legale dalla primavera all’autunno. Fa eccezione la Navajo Nation, che si adegua all’ora legale e che quindi è un’ora più avanti rispetto al resto dello stato.
GIORNO 9
Kayenta – Grand Canyon NP – Tusayan
In poco meno di tre ore, percorrendo in successione la US-160, la US-89 e la AZ-64 arriviamo all’entrata est del Grand Canyon NP. Ovviamente ci troviamo sulla sponda sud del parco (South Rim) e dopo poche miglia arriviamo al primo belvedere, il Desert View, dove si trovano vari servizi tra cui una stazione di benzina, un centro visitatori ed una torre di osservazione.
Il primo impatto con il Grand Canyon fa venire la pelle d’oca, anche se la temperatura oscilla sui 27 °C. È maestoso! Ci lascia a bocca aperta e non riusciamo a spiccicare parole.
Dal look out parte un sentiero scosceso che scende per alcune decine di metri nel canyon, tra piccole piante grasse con i fiori color lillà ed arbusti secchi, dal quale si possono rubare degli scatti suggestivi su quello che ci sta di fronte. Percorriamo la strada all’interno del parco, la Desert Drive, tra piante di ginepro e pini gialli (pinus ponderosa) e ci fermiamo ai belvedere segnalati sulla guida: Navajo Point, Lipan Point (secondo noi quello con le vedute più belle), le vecchie rovine ed il museo di Tusayan, Moran Point ed infine Grandview Point.
Dopo che lo avevamo lasciato due giorni fa a Page, da quasi tutti i view point riusciamo ad intravedere alcuni tratti del Colorado River scorrere in un percorso tortuoso un chilometro e mezzo sotto di noi. Peccato che l’atmosfera sia intrisa da un piccolo strato di foschia, che non permette una visione nitida della North Rim.
Usciamo dal parco e ci rechiamo a Tusayan, località che si trova a poche miglia dal canyon ed è dotata di una buona scelta di servizi. Prendiamo posto nel nostro motel e poi andiamo a fare la spesa al supermercato.
Alle ore 19.00 siamo di nuovo nel parco, parcheggiamo la macchina al centro visitatori ed a piedi raggiungiamo la zona di Mather Point (chiuso per lavori in corso) per assistere al rituale sacro del tramonto.
È una esperienza che merita di essere vissuta, uno dei regali più belli che la natura ci abbia mai fatto. La roccia muta di colore in base alla quantità di luce che la colpisce. Arancione dove i raggi riescono ancora ad illuminarla, vermiglio dove la luce se ne è appena andata, giallastra, verde e grigia nelle zone in ombra.
C’è moltissima gente assiepata sulla riva del canyon che assiste a questo spettacolo in religioso silenzio, in un ambiente ovattato dove si sente a malapena il rumore delle piante scosse da qualche folata di vento. Luce, colori e silenzio dicevo: bastano questi pochi elementi della natura a creare la chimica giusta per un’atmosfera magica. Al termine siamo riluttanti a lasciare questa scenografia per rituffarci nella nostra “normalità”.
Dopo una giornata torrida si è alzato un venticello fresco che dapprima ci porta una ventata di sollievo e poi ci costringe ad indossare la felpa a maniche lunghe. Il sole ha picchiato tutto il giorno ed io, rapito dalle bellezze che avevo di fronte, mi sono dimenticato di spalmarmi la dose giornaliera di crema solare e quindi, ahimè, la pelle si sta lamentando.
Concludiamo la serata a Tusayan in una steakhouse. Mentre ci accingiamo ad entrare nel parcheggio del ristorante in pieno centro del paese, un grosso esemplare di cervo maschio adulto ci attraversa placidamente la strada e si ferma a brucare l’erba nella zona del cinema IMAX.
Il menù prevede per antipasto un esemplare di rattlesnake fritto nell’olio (serpente a sonagli), che Elisabetta gentilmente declina, poi gustiamo la Cowboy Steak di top sirloin, con fagioli in padella, mezza pannocchia di mais bollita, una patata cotta nel cartoccio e servita con la buccia, fette di pane caldo tostato e burro. Il tutto ovviamente accompagnato da una buona birra fresca indiana.
GIORNO 10
Tusayan – Grand Canyon NP – Williams
Mentre facciamo colazione, comodamente seduti sulle poltrone in camera da letto, assistiamo alla mesta conclusione della spedizione italiana alla Coppa del Mondo di calcio, per mano della Slovacchia. L’Italia si classifica ultima nel girone più facile del torneo e raccoglie il peggior risultato della sua storia.
Rientriamo nel parco e ci fermiamo alla Yavapai Observation Station. Dalla guida leggo: “Circa 70 milioni di anni fa, una vasta parte di quel territorio che divenne poi la zona sud-occidentale degli Stati Uniti iniziò a sollevarsi. La pressione causata dalla collisione delle placche tettoniche spinse l’altopiano del Colorado dal livello del mare ad oltre 3000 metri di altezza. La parte del canyon che si può vedere sia dalla North che dalla South Rim non è altro che uno squarcio in mezzo ad una prominenza nella parte sud-occidentale dell’altipiano del Colorado, chiamata Kaibab Uplift (rialzo di Kaibab).
Il canyon in sé stesso si è formato nel corso degli ultimi 5-6 milioni di anni. Prove sperimentali suggeriscono che i 600 metri più profondi, che si trovano alla base del canyon, sono stati scolpiti negli ultimi 750.000 anni. L’obiettivo di ogni goccia di pioggia, di ogni roccia e di ogni granello di sabbia è di ritornare al mare. Defluendo dalle pendici occidentali delle Montagne Rocciose meridionali ed attraversando l’altipiano del Colorado, l’acqua trasportava ghiaia, sabbia e rocce, facendosi strada tra gli strati più antichi. Senza il sollevamento dell’altopiano del Colorado, non ci sarebbero stati migliaia di metri di roccia al di sopra del livello del mare da attraversare.”
Oggi abbiamo in programma la visita alla parte ovest della riva, raggiungibile solo a piedi o in navetta. Lasciata la macchina in uno dei parcheggi, ci presentiamo al Village Route Transfer dove c’è il capolinea degli shuttle della linea rossa Hermits Rest Route. Facciamo un po’ di coda e poi finalmente partiamo con destinazione Trailview Overlook, il primo view point del “tour”.
Da qui ad Hopi Point, seguiamo il percorso a piedi del Rim Trail passando per Maricopa Point e Powell Point. Ai lati del sentiero incontriamo una vegetazione formata da arbusti, cactus che fanno dei fiori gialli e pini di media altezza, oltre che tronchi di pino secchi. Tra i rami di pino intravediamo degli esemplari di violet green swallow (rondine viola verde). L’altitudine e l’aria rarefatta si fanno sentire a livello fisico, ma nonostante questo camminiamo di buona lena.
Ad Hopi Point incontriamo una comitiva di persone dai tratti somatici orientali, diciamo giapponesi. Ci sono bambini, anziani, adolescenti e persone di mezza età. Tutti indossano una maglietta di cotone a maniche corte di color marrone, in pratica hanno la divisa.
Mentre siamo seduti su un muretto in pietra a sorseggiare dell’acqua fresca, uno di loro si siede per terra proprio davanti a noi e sul retro della maglietta leggiamo: Enomoto Family Reunions e sotto l’elenco di tutti gli incontri che si sono svolti fin qui ad intervalli di cinque anni, da 1960 Los Angeles California al 2010 Grand Canyon National Park Arizona, passando per Denver, Lake Tahoe, Sylvan Lake e Las Vegas.
Da Hopi Point in avanti decidiamo di prendere lo shuttle e ci fermiamo prima a Mohave Point, poi a The Abyss ed infine ad Hermits Rest, l’ultimo belvedere della zona ovest. Anche da questa parte del canyon riusciamo a scorgere più volte il corso del Colorado River, che grazie al suo colore azzurro è facilmente localizzabile tra le rocce colorate che formano i sub strati della grande gola. Rientriamo alla base e lasciamo a malincuore il parco, che in questi due giorni ci ha regalato grandi emozioni.
Nel tardo pomeriggio ci trasferiamo a Williams, un’ottantina di chilometri a sud di Tusayan sempre sulla AZ-64, mentre l’autoradio trasmette il brano Live your life interpretato dal famoso rapper T.I. King in coppia con Rihanna. La cittadina si trova appena fuori della Kaibab Forest e vive tuttora sul mito della Route 66.
Si sviluppa sulla via principale, che è uno dei segmenti originali di quella che fu chiamata la Mother Road, attorno alla quale si trovano caratteristici edifici in mattone rosso e legno tra cui motel, ristoranti, negozi di souvenir, banche e stazioni di servizio. Ci sono anche un paio di musei. Dopo diversi giorni di deserto, troviamo finalmente una parrucchiera (Stephanie) che gentilmente prolunga l’orario di apertura del suo piccolo negozio solo per noi.
Tra la Route 66 e qualche Harley Davidson parcheggiata fuori dai pub, non posso dimenticarmi di Dennis Hopper che da pochi giorni ci ha lasciato. Insieme a Peter Fonda e Jack Nickolson, fu protagonista e regista di un film che fece epoca: Easy Rider. Bellissimo!
GIORNO 11
Williams – Las Vegas
La cittadina di Williams si chiama così in onore di William “Old Bill” Williams, famoso mountain man ed esploratore. Guidò diverse spedizioni in quella che a quel tempo veniva comunemente chiamata la “frontiera del west”, che comprendeva il Texas, la California, le Montagne Rocciose, Yellowstone, il Santa Fe Trail, l’Arizona ed il Colorado.
Williams partecipò anche alla spedizione di Joe Walker nella Yosemite Valley. Lasciamo la cittadina di buon mattino sotto un cielo stranamente cupo. Sarà per l’emozione di guidare sulla Route 66 oppure sarà perché non ho ancora digerito bene i tacos di ieri sera, fatto sta che mi ritrovo a guidare per alcune decine di metri contromano, prima che la ragione mi riporti sulla retta via.
Prendiamo la I-40 direzione Los Angeles e guidiamo per alcune decine di miglia immersi nella Kaibab Forest, lasciamo sulla destra Seligman e Kingman, cittadine che vivono anch’esse nel mito della Route 66. Appena fuori Kingman svoltiamo a destra sulla US-93 che ci riporterà a Las Vegas.
Man mano che ci avviciniamo a quella che Elisabetta ha definito giustamente la città dei balocchi di collodiana memoria, il paesaggio si trasforma in una pianura riarsa, mentre la colonna sonora che ci accompagna è formata dalle hit del momento: Hot n’ Cold di Katy Perry, Russian Roulette di Rihanna e quello che sta diventando il tormentone di questi giorni, Alejandro di Lady Gaga.
In mezzo a questo paesaggio dominato dal vento e dalla solitudine, di tanto in tanto intravediamo sul ciglio della strada delle piccole croci di legno, in memoria e ricordo di chi ha perso la vita in queste lande desolate. Su una di esse hanno appeso il “cavallo” in metallo, simbolo della casa automobilistica Mustang.
Arriviamo a Las Vegas in circa quattro ore, al netto di una lunga coda per lavori in corso nei pressi della Hoover Dam, una breve visita alla diga, ed un posto di blocco della polizia. Non vediamo il cartello di benvenuto in Nevada sul bordo della strada, ma capiamo subito di essere arrivati nuovamente nel Silver State grazie ai luminosi casinò che fanno bella mostra di sé.
Da circa una settimana, abbiamo un conto in sospeso con un outlet di Las Vegas che si trova proprio vicino all’aeroporto. Terminata la visita con reciproca soddisfazione (nostra e dei commercianti), consegniamo la macchina nel nuovo ed avveniristico McCarran rent a car Center, struttura a tre piani nella quale si trovano gli uffici di tutte le compagnie di autonoleggio, ed è collegata all’aeroporto con delle navette gratuite che partono ogni 5 – 10 minuti.
Dopo 11 giorni e 2199 miglia, termina qui il nostro on the road San Francisco – parks of the Southwest 2010.
Informazioni utili
Dove dormire
Per chi viaggia negli Stati Uniti la tipologia di alloggio più pratica è rappresentata sicuramente dai motel, distribuiti in maniera capillare su tutto il territorio. Oltre a questi noi vi consigliamo le seguenti strutture:
Murphey’s Motel, Highway 395 Lee Vining CA, motel situato in una posizione strategica per visitare la ghost town di Bodie, la South Tufa reserve ed accedere a Yosemite NP da est.
Bullberry Inn B&B, 412 South Highway 12 Tropic UT, delizioso bed and breakfast a gestione famigliare situato a poche miglia dall’ingresso del Bryce Canyon NP.
Copertura sanitaria negli Stati Uniti
Il servizio sanitario nazionale italiano non ha una convenzione bilaterale con gli Stati Uniti d’America (anche per le prestazioni di Pronto Soccorso) e quindi prima di partire è consigliato stipulare un’assicurazione sanitaria privata.
Fusi orari Stati Uniti
Rispetto all’Italia:
California, Nevada e Arizona -9
Utah e Navajo Nation in Arizona -8
Il nostro viaggio continua con uno stop over di un giorno per visitare i luoghi più importanti di Atlanta, la capitale dello stato della Georgia.